DIALETTICA DEI LUOGHI
1 02 2004 > 24 03 2004
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CAOS, PROGETTUALITA’, MEMORIA, SEGNO di Roberto Mutti
Da molti anni Luigi Erba accosta all’attività di critico fotografico e d’arte quella di fotografo: lo fa con un atteggiamento serio e rigoroso, ma anche con qualche titubanza perchè nel nostro Paese chi persegue questi due percorsi paralleli viene visto con sospetto come se fosse proibito esercitare la critica in certi momenti e sottoporsi ad essa in altri. Inutile dire che all’estero le cose stanno in modo diverso se il fotografo americano Roberto Adams è anche autore di un lucidissimo saggio sulla bellezza, mentre il francese Gilles Mora è altrettanto noto come fotografo e come curatore di mostre, per citare due soli casi. Non è quindi stato facilissimo convincere Luigi Erba a pubblicare alcuni lavori proprio nella rivista che da anni ospita, nella rubrica “Flashback”, i suoi saggi di storia della fotografia: quello che ha prevalso è stato il suo desiderio di fare il punto sulla fotografia di paesaggio in aperta e dichiarata polemica con la corrente topografica che in questi ultimi anni si sta facendo sempre più strada. “Le immagini di ‘Ravenna-Comacchio 1996’ sono state il primo lavoro organico sui luoghi da me realizzato sulla linea di questa polemica. Ho voluto evitare sia i topoi quasi obbligati e oggettivi- in linea con una visione iniziata con lo storico ‘Viaggio in Italia’-sia la nuova oleografia dei ‘non luoghi’ dove, all’assoluta mancanza di referente oggettivo, si contrappone la propria pura e assoluta individualità”. Questa è la ragione per cui Luigi Erba propone i suoi ‘Luoghi diversi’ alla ricerca di “una linea di equilibrio fra le due tesi opposte che mi consente di indagare il mondo e contemporaneamente me stesso e il mio modo di fotografare”. Già nel passato, con la ricerca dei segni, il fotografo di Lecco aveva teorizzato un suo ‘concettualismo lirico’ mentre dovendo indagare sui limiti metalinguistici del mezzo fotografico aveva elaborato le ‘Sequenze’, i ‘Concetti temporali’ e infine gli ‘Interfotogrammi’ e i ‘Polifotogrammi’, andando oltre la singola fotografia delimitata dalla cornice interna alla pellicola. Come allora, anche adesso la ricerca di nuovi confini della tecnica è assolutamente funzionale alla necessità di un rinnovato linguaggio espressivo. “La metodologia di lavoro è quella di sovrapporre ad un rullino già impressionato in un luogo, le immagini scattate in un altro luogo, magari scelto casualmente: la stratificazione delle diverse immagini si determina quindi come memoria che si sovrappone nel cervello”. C’è molto da dire a proposito della casualità perchè spesso qui prevalgono scelte inconsce o, sarebbe meglio dire, determinate da sotterranee intuizioni: quella che gli ha fatto vedere Ravenna e Comacchio sommerse come in un bradisismo che ricorda la loro storia antica, quella che gli fa dire di aver scoperto, dopo quello Ligure, il mare Adriatico e il suo orizzonte ampio “che mi ha fatto capire il limite della verticalità delle cose che mi hanno sempre circondato (culla, corte, cortile, montagne sopra il tetto di casa, montagne che coronano la mia città, gallerie del lago e lago stesso nato dallo scavare del ghiacciaio) limitando in qualche modo la mia vista”. Per quanto sia lo stesso fotografo a stupirsi dei “risultati sorprendentemente omogenei” ottenuti con questi accostamenti casuali, è evidente che le varie fasi di lavorazione implicano sempre un tipo di intervento caratterizzato da spinte intense quanto sotterranee. Sovrapporre alle immagini di una città le riprese di un cielo o della superficie dell’acqua significa, infatti, farsi guidare da un’idea in embrione che di fronte al risultato finale- una lunga striscia di provini da osservare con curiosità- obbliga poi a scelte drastiche (perchè si scarta molto) ma anche a un’analisi puntuale delle fotografie che assumono una complessità sorprendente. “Perciò questi ‘luoghi diversi’ sono il risultato che non va bene quasi a nessuno: non si inseriscono nella linea della descrizione topografica e asettica del paesaggio, non documentano come pretenderebbero gli assessori di turno, non soddisfano il gusto modesto degli enti turistici, non intervengono nel problema dell’artificiosità del paesaggio ma sono invece una ‘sonda’ che penetra nell’interiorità della natura e, nella stessa misura, in quella dell’uomo. Dopotutto un luogo è ciò che rende privato l’infinito”.
Roberto Mutti da “IMMAGINI FOTOPRATICA” n. 323/ 2000
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