Fotografie di
Stefania Beretta
16 10 2004 > 21 11 2004
nell’ambito di
IL MONDO IN CAMERA
Biannale dell’immagine – Chiasso 2004
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LA SEMPLICE COMPLESSITA’ DEL MONDO
L’India non è un luogo ma un modo di essere ed è per questo, forse, che non è facile fotografarla. In realtà innumerevoli sono gli autori che indagano, scattano, realizzano reportage, pubblicano libri, espongono in mostre che hanno per soggetto l’India, ma pochissimi sono quanti ne colgono l’anima più profonda. Stefania Beretta è fra costoro, per quella sensibilità che ne caratterizza da sempre il lavoro di ricerca e per quella esperienza grazie alla quale sa viaggiare con la determinazione della volontà e la delicatezza dello sguardo. Questo suo lavoro si determina e arricchisce grazie all’idea programmatica di avvicinarsi a una realtà così diversa dalla nostra assumendone totalmente il punto di vista: con felice intuizione, la fotografa lo identifica con un angolo di visuale ed è per questo che concentra lo sguardo sulla terra, proprio laddove si svolge per la maggior parte la vita dei suoi soggetti. Ed è da quel punto privilegiato che osserva la realtà, scoprendo piedi di uomini che non si stancano di camminare ma anche piedi-simulacro sbalzati a rilievo nei luoghi sacri, gambe accavallate viste in soggettiva e arti di persone accovacciate che si intrecciano, passi leggeri che sembrano danzare un rito misterioso accanto ad altri cadenzati per un lungo, polveroso, viaggio. Tutto il lavoro è dominato dalla presenza dell’acqua: la si trova lambire i gradini che permettono di accedere alle abluzioni rituali, la si ammira libera mentre scorre nell’alveo di un fiume, la si contempla quando nella sua immobilità definisce lo spazio di un luogo di preghiera, la si ritrova nei grandi contenitori di metallo che, impilati, costituiscono un magnifico still life. Proprio lo scorrere lento dello sguardo fa sì che Stefania Beretta crei delle fratture nel percorso, dei momenti in cui si ferma a contemplare frammenti di realtà ed è qui che fa emergere il suo temperamento artistico, la sua vena simbolista. Su una grande tela grezza stesa a terra giacciono centinaia di pesci che gettano un bagliore metallico e per un attimo sembra di vederli ancora sott’acqua muoversi compatti con improvvisi scarti, in un angolo di una stanza rotolano disordinatamente noci vuote di cocco fino a formare una strana installazione, su una sedia giace un bicchiere, su un cuscino nero si esaltano le forme di conchiglie preziose dall’interno bianchissimo. In un paese dove ci si può imbattere in un sacerdote che disegna il simbolo sessuale femminile con una composizione costituita da miriade di minuscoli falli di fango sormontati da un chicco di riso, è difficile guardare anche ai più semplici oggetti con distacco: basta una tenda che fa da sfondo e un grosso involto che occupa una porzione di spazio, basta una serie di ceste accostate a una grande zucca per chiedersi se tutto questo non voglia significare qualcosa. Ma, ovviamente, ci si può accontentare della bellezza di queste visioni, dell’armonia di queste composizioni, della delicatezza intensa di questo bianconero realizzato, in perfetta sintonia con il mondo descritto, non con sofisticati apparecchi ma con una semplice macchina polaroid a sviluppo immediato.
Roberto Mutti
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