Quale identità
Il termine “identità” assume molti e diversi significati a seconda del contesto nel quale lo si utilizza. Igor Ponti intitola questo suo importante progetto fotografico Looking for Identity, una ricerca di identità che, pur utilizzando un medium tecnico-digitale (la macchina fotografica, appunto), rimanda in modo più ampio al senso che la psicanalisi attribuisce al termine: “consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo” (dall’Enciclopedia Treccani). Igor Ponti confessa di esserne alla ricerca: nel tempo, nei luoghi, in se stesso. Identità di uomo, identità di fotografo, identità di cittadino svizzero. Sceglie l’avvicinamento meno traumatico misurandosi con il proprio Paese, con quell’identità ricevuta dalla quale spesso ha sognato di fuggire. Ma la voglia sincera di capire e conoscere lo spinge al confronto, a utilizzare la fotografia come strumento per mettere in discussione se stesso e verificare le radici della propria appartenenza. E, con una determinazione che non è solo una scelta tecnica, decide che lavorare con una macchina di grande formato (20×25 cm) su cavalletto è il metodo che gli consente di trasformare lo sguardo in visione. Una visione lenta, che richiede progettazione, e che spesso impone l’utilizzo di quel linguaggio che Walker Evans aveva definito “documentario”, un linguaggio che si vuole “oggettivo” (nei limiti che la soggettività del fotografare consente), un linguaggio che non giudica, non commenta, non si abbandona ad acrobazie estetiche ma solo rispetta e registra. Le sue immagini raccontano quindi la Svizzera, ma è più facile elencare quello che non compare piuttosto che quello che ha fotografato: non ci sono mucche e sciatori, mancano cioccolato, formaggi, orologi, c’è un solo Guglielmo Tell. Il suo viaggio si compie attraverso la visione, attraverso un esercizio che la fotografia conosce bene: il passaggio concettuale e pratico dal guardare al vedere. Con “guardare” Igor Ponti intende il gesto naturale, quotidiano, che non prevede necessariamente l’atto del “vedere”, passo successivo che implica consapevolezza e che è alla base della visione fotografica.
L’esercizio introspettivo e la ricerca della propria identità attraverso la pratica fotografica sono quasi una costante metodologica per Igor Ponti. Già alla fine degli studi di fotografia, nel 2005, si era interrogato su come mettere in pratica ciò che aveva imparato, e con onestà aveva cercato storie con le quali gli fosse possibile misurarsi. Nacque così, nel 2009, Skate Generation. Lugano Skaters Portraits, un libro che raccoglie 49 ritratti e 49 racconti della comunità degli skaters luganesi. Il mondo che conosceva, che aveva frequentato fin dall’adolescenza, si era trasformato nel suo primo progetto organico: con Skate Generation Igor Ponti scoprì la possibilità di tradurre l’indagine sulla propria identità nel piacere di realizzare un progetto creativo.
Il passo successivo lo ha condotto dalla riflessione sul proprio mondo adolescenziale a una contemporaneità ancora lacerata dai dubbi. Igor confessa di essersi interrogato a lungo per capire quell’ambigua dicotomia per la quale da un lato sognava di emigrare, di abbandonare la Svizzera, e dall’altro era consapevole di non conoscerla a sufficienza. Ancora una volta è la fotografia che lo aiuta ad affrontare gli interrogativi. Nel 2010 realizza quello che definisce “una sorta di prologo”, girando per il Paese e fotografando con una piccola fotocamera, alla ricerca di ciò che riteneva potesse essere una “identità svizzera”. Tuttavia si accorge ben presto che la propria ricerca non deve essere rivolta all’esterno, verso i segni evidenti e i prevedibili stereotipi, anche se fotografati e mediati da una cultura visiva dai riferimenti statunitensi, ma che la sua attenzione deve invece rivolgersi verso se stesso, verso il senso che nella sua vita assume l’atto di fotografare. Di qui la scelta di concretizzare il suo bisogno di comprensione utilizzando una macchina di grande formato, i cui ritmi lenti impongono una necessaria ritualità e una progettazione precisa. Iniziano quindi i viaggi regolari, verso luoghi prestabiliti – ma spesso disattesi – alla ricerca di siti storici, di presenze importanti; ma ben presto l’esercizio costante di una visione meditata sposta i suoi intenti verso soggetti più intimi e personali, che non necessariamente si ricollegano a un’appartenenza culturale.
Il viaggio alla ricerca dell’identità si compie quindi attraverso paesaggi, stagioni, luoghi che conservano memorie storiche e luoghi anonimi, volti, insegne, segnaletica. La sequenza di immagini testimonia lo stupore e l’empatia di fronte al previsto e all’imprevisto: ci sono vedute e ritratti, una poetica scultura di campane e una scultura lignea di Guglielmo Tell; ci sono i nanetti e qualche croce bianca in campo rosso, viadotti e ponti, le montagne, le roulotte, le case di legno e di cemento, gli “amici” incrociati per pochi momenti. Ma c’è soprattutto una visione limpida, capace di diventare testimonianza di incontri, capace di “vedere” l’ovvio e l’anonimo e di trasformarli in opera di creazione. È il racconto di una Svizzera “media”, senza grandi città, senza eventi, senza stereotipi, nella quale ogni immagine rilegge un momento di riflessione privato, quasi un autoritratto obliquo del narratore. “L’identità” che la sequenza di immagini delinea, figlia di una cultura della visione contemporanea, è precisa, lucida e intensa, ed è comunque, fra le tante possibili identità, “distinta dalle altre e continua nel tempo”, quella che certamente Igor Ponti si proponeva di trovare.
Giovanna Calvenzi
Milano, luglio 2014
tratto dal volume
Looking for Identity
ed Hatje Cantz, Berlino – 2014
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